Manacorda: la poesia italiana oggi



Il poeta e critico letterario Giorgio Manacorda parla della poesia del XXI secolo proponendo un'infrazione al canone della tradizione novecentesca
di Valeria Merola

Giorgio Manacorda è docente di letteratura tedesca presso l’università della Tuscia di Viterbo e La Sapienza di Roma. Poeta e critico letterario, Manacorda si dedica da dieci anni alla pubblicazione dell’Annuario critico della Poesia italiana (Castelvecchi, dal 1994), che fa il punto sulla situazione della poesia in Italia. Nell’antologia La poesia italiana oggi(Castelvecchi, 2004) il critico propone una fotografia della poesia nel passaggio tra il XX e il XXI secolo, scardinando il canone della nostra tradizione novecentesca. Manacorda sceglie di intervenire con gli strumenti della critica militante, imponendo all’attenzione del lettore autori giovani e promettenti e sottoponendo alla «tortura dell’epigramma» i poeti più accreditati. La lettura critica comincia con un epigramma per ogni poeta presentato, in cui Manacorda stigmatizza le linee della sua analisi.

D: Nell’introduzione a La poesia italiana oggi lei dichiara che non tornerà a parlare di poesia contemporanea. Può spiegarci il significato di questa posizione?
R:
 In realtà non è un intento programmatico, non credo che sulla poesia contemporanea non si possa più dire nulla. Semplicemente volevo dire che ho esaurito tutto quello che pensavo sull’argomento. Negli ultimi dieci anni ho pubblicato dieci volumi dell’Annuario, due libri teorici (Per la poesia, Editori Riuniti, 2003 e La poesia è la forma della mente, De Donato-Lerici, 2002) e un’antologia. Ora basta, qualsiasi altra parola sarebbe superflua. Tuttavia, per quanto io non ritenga concluso il dibattito sulla poesia, non mi sembra comunque che nelle nuove generazioni di poeti ci siano effettivamente molti elementi interessanti. Questa nuova vague privilegia lo scarto minimo dal reale, si rifugia in una quotidianità spicciola, poco approfondita. Il problema è che non esiste più una vera critica della poesia, spesso affidata agli stessi poeti, troppo impegnati a scambiarsi inchini. L’Annuario ha creato un momento di rottura e di scandalo perché ha incrinato questo meccanismo di reverenze reciproche, denunciando l’assurda situazione della critica. Sono gli editori in Italia a decretare le sorti della poesia, stabilendo quali autori imporre sul mercato. L’importanza del poeta è dunque direttamente proporzionale alla grandezza della casa editrice che lo pubblica. Non mi sembra siano altri i criteri di giudizio.

D: Nella sua antologia lei fa una scelta estremamente provocatoria, indicando buoni e cattivi del panorama poetico italiano. In questo modo, La poesia italiana oggi propone una variazione significativa al canone, nel momento in cui maltratta Giudici e Zanzotto ed esalta Anedda e Febbraro. Qual è il significato di questa violazione del canone? E perché questa fotografia sull’oggi poetico culmina nella composizione di epigrammi? è forse un segno dell’impossibilità di portare a termine l’operazione critica, che cede la parola alla poesia?
R:
 No, non direi: la critica basta volerla fare. Il motivo per cui metto sullo stesso piano Febbraro e Zanzotto, Zuccato e Giudici è che mi pongo nei confronti della loro opera come lettore, senza pregiudizi critici. Apro il libro e lo leggo, e non mi interessa quanti anni abbia l’autore, chi sia, quanti libri abbia scritto. La poesia c’è o non c’è, non esistono vie di mezzo né altri criteri interpretativi. Le racconto un aneddoto, che spiega la scelta degli epigrammi a commento dei vari autori, la cui idea è nata in modo inaspettato e sorprendente. Mi sono ritrovato un giorno ad alzare gli occhi dal mio tavolo di lavoro e a rimanere colpito da un volume sullo scaffale di fronte. Si trattava de La Beltà di Zanzotto, raccolta che nel 1968, quando uscì, segnò una svolta importante nel panorama poetico, riuscendo quasi miracolosamente a coniugare l’afflato della lirica con la ricerca linguistica. Ecco, dunque: a più di trent’anni di distanza, riaprendo quel volume mi sono venuti spontanei due versi: «Che botto! / Mi si è rotto Zanzotto». Il libro che nel ’68, sull’onda delle neoavanguardie, aveva un significato, perché rappresentava un punto di equilibrio, nel Duemila si sfascia, perde la sua portata sul presente, la sua attualità.

D: Quali sono allora le prospettive della critica? Può avere il coraggio di essere valutativa e non solo descrittiva? Si può ancora parlare di poesia?
R:
 Non lo so, non direi mai che la poesia è finita, mentre la critica forse si sta esaurendo. Del resto anche l’Annuario testimonia della morte della critica. Mi sembra che non esista più la critica militante, che le recensioni spesso si limitino a proporre delle belle quarte di copertina, sulla falsariga dei lanci pubblicitari degli uffici stampa delle case editrici. La mia speranza è che i giovani critici che collaborano all’Annuario possano portare avanti questa esperienza, continuando ad andare controcorrente.

D: Che cosa hanno in comune i giovani poeti che lei propone? E quali sono le prospettive per la poesia del XXI secolo, dopo la crisi del Novecento, dopo il postmoderno?
R: 
Non posso fare profezie, ma posso parlare a partire da quella che è la situazione attuale e quindi dire quali sono gli autori su cui si può scommettere. Penso in particolare a quelli che considero i migliori poeti degli ultimi dieci anni, e cioè ad Antonella Anedda, Massimo Bocchiola, Paolo Febbraro, Umberto Fiori ed Edoardo Zuccato. Questi poeti, che per me rappresentano veramente l’oggi della poesia italiana, hanno in comune l’originalità della parola lirica, il fatto che nessuno di loro sta a rifare il neoorfico, il neoclassico, il postmoderno, ecc. Sono tutti poeti in cui si sente la necessità dell’esperienza, in cui la poesia si manifesta come pensiero arcaico, senza mediazioni razionali che ne annientino l’efficacia emozionale.

D: Che cosa pensa del successo ottenuto dalle collane di poesia in abbinamento con i quotidiani? Il fatto che la poesia venda in edicola significa che ha nuove possibilità?
R:
 Mi sembra una bolla di sapone, destinata a dissolversi appena esaurito l’entusiasmo del momento. Sicuramente l’edicola è un canale del marketing, che si avvale della funzione trainante del quotidiano. Ma credo che l’interesse per la poesia finisca con il termine dell’operazione promozionale. Ciononostante, i dati delle vendite in edicola testimoniano che non è vero che la poesia non si vende, per quanto sia un oggetto complicato, difficile, che non raggiungerà mai punte di vendita paragonabili a quelle della narrativa. Sarebbe però interessante scoprire se le persone che comprano questi volumi di poesia li leggono anche. La poesia seleziona i lettori, perché ha come oggetto in sé qualcosa di inquietante, e per questo vende poco.

Nessun commento:

Posta un commento