Eloisa Guarracino


Un epico – comico vero. Sulla parola epicomica di Giulia Niccolai.
Brano tratto dalla tesi:
L’itinerario poetico-esistenziale di Giulia Niccolai. Dalla poesia sperimentale alla poesia sperimentata.
DI   ELOISA GUARRACINO


Siamo certi, consci di parlare ancora attraverso strumenti poetici, che la scrittura della Niccolai non solo abbia paradossalmente informato la sua arte della suddetta “ricerca del vero” (con un senso della misura e della misurazione ontologici al suo “fare poesia”), ma anche che l’autrice sia riuscita in qualche modo a sostituire, o meglio a far convergere, catarsi con vacuità.
Consideriamo infatti che l’insegnamento della vacuità (sunyata) è uno dei cardini su cui fonda il Buddismo, per cui riflettendo sull’insostanzialità di tutti i fenomeni si arriverà a comprendere che “non solo il «sé», ma tutte le cose sono prive di natura propria in quanto soggette al meccanismo della produzione condizionata”. Il vero stato delle cose è infatti “l’assenza in sé e per sé o assenza di sostanzialità  di un fenomeno”. Ma ci si astenga da reminescenze di nichilismo pessimista, poiché “la vacuità non svuota le cose del loro contenuto: ne è la vera natura. Non il nulla, giacché le cose appaiono in maniera interdipendente”[1], come scrive Philippe Corpu, nel Dizionario del buddismo.
Secondo questa concezione si giunge a riconoscere due livelli di realtà: “quello relativo della verità discorsiva che distingue e conosce i fenomeni nella loro dimensione apparente e quello della verità assoluta che coglie l’intrinseca vacuità di tutte le cose e si pone al di là di ogni ragionamento discorsivo. I due livelli non sono contrapposti ma complementari: il piano della verità relativa riconosce un’esistenza alle cose come strumento indispensabile per la conoscenza intuitiva della vera realtà: l’esperienza della mente libera da tutte le categorie di pensiero e vuota di ogni rappresentazione soggettiva”[2].
Per queste ragioni potremmo ritenere che la scrittura della Niccolai, che definiamo “sperimentata”, pur non essendo filosofia come vuole Platone, abbia già compreso (nel senso anche di incluso) la necessità di una ricerca, abbia cioè già assunto la “medicina”citata dal Filosofo, e intesa come conoscenza del vero, ma al contempo abbia raggiunto anche quello stato “non discorsivo” (né poetico né filosofico, ma entrambi contemporaneamente) della visione della realtà, cogliendone la vacuità, e includendo nella medesima condizione la stessa poesia.
Infatti, “l’assenza di identità propria o insostanzialità dei fenomeni […] è l’assenza di essere in sé tutti i fenomeni raggruppati sotto la definizione di soggetto che percepisce  e sotto quella di oggetti percepiti”[3]. Un equanime status di assenza riguarda perciò soggetto e oggetto, e come tale sovrasta e azzera, al tempo stesso, poeta: poesia: ricerca: oggetto: realtà. Posto ciò, concludiamo che la scoperta di tanta vacuità riservi infine la scoperta dell’essenziale realtà. Parliamo, sia chiaro, sempre secondo una precisa prospettiva che influenzerebbe il modus scribendi della Niccolai, che riguarda cioè lo studio circoscrivibile alla poesia della nostra autrice.
Ma tornando alle questioni platoniche (o meglio aristoteliche) concordiamo nel riconoscere che la poesia ha precise funzioni catartiche e cioè quelle di rappresentare, enfatizzare sentimenti nei quali e attraverso i quali è possibile e necessario riconoscersi, al fine di purificarsi, neutralizzandoli attraverso un processo di mimesi. Consideriamo che in Platone questo termine abbia avuto enorme portata soprattutto morale, intendendo la catarsi sostanzialmente come una liberazione dai piaceri del corpo, e che in Aristotele questo concetto sia stato esteso al fenomeno estetico, costituendo “quella specie di liberazione o rasserenamento che l’uomo subisce ad opera della poesia”[4]. Ci sembra di comprendere però che in questo caso si parli di catarsi come di un “fine” della poesia (la sublimazione di uno stato psichico), che è comunque anche un “mezzo” (il raggiungimento di quello stesso stato, sedato e purificato). Ne risulta una sorta di equilibrio, di calma piatta emozionale, secondo cui Goethe individua nella catarsi una specie di “cura delle affezioni (corporee e spirituali) che non le abolisce ma le porta alla misura in cui esse sono compatibili con la ragione”[5].
Non riteniamo azzardato, dopo siffatte premesse, considerare certo tipo di scrittura della Niccolai, soprattutto nei suoi contenuti “non discorsivi” bensì meditativi, informata della funzione catartica. Ma se lo stadio psichico di cui si presume ella voglia dare cura, purificandolo ed esorcizzandolo mediante il fenomeno estetico, è rappresentato (nelle forme e nei contenuti della sua rappresentazione) dallo slancio alla ricerca, radicata nei concetti di vacuità e interdipendenza, ne potremmo desumere che la catarsi, doppiamente al quadrato (ovverosia la liberazione della tensione alla liberazione),  conduca di conseguenza, e radicalmente, a un livello totale - essenziale-  di vacuità.
Del resto, senza slanciarsi in interpretazioni ardite, potremmo accontentarci di certificare nell’autrice quel compito di paideia che Platone riserva alla filosofia, semplicemente se è vero che la scrittura rappresenti, prima di tutto per lei stessa (che ne è prova, per così dire, provata), una forma di insegnamento costante della verità, pervaso da una certa “morale”: un’“arte della misura” interessata, come prima cosa, a fare chiarezza e a scostarsi da ogni tipo di inganno, come insegna il Filosofo, e come lei stessa implicitamente conferma con la metafora della “misura del respiro”.
Tutto questo accade anche per ciò che, in un altro contesto, rileverà Cecilia Bello Minciacchi, secondo la quale “c’è nella scrittura di Giulia Niccolai, una capacità al contempo di vedere  e di intelligere[6]. Ma la questione sarebbe, oltretutto, da valutare stando a ciò che afferma Aldo Tagliaferri, proprio nella prefazione a La misura del respiro.
Il critico, a proposito dei testi più recenti (Orienti, Meditazioni e Frisbees della vecchiaia), afferma che “ha oscillato tra il sospetto che il buddismo renda superflua la poesia, relegandola tra le illusioni, e la fiducia che il buddismo, al contrario, possa costituire la suprema coincidenza tra l’uso artistico del linguaggio, comprensivo della sua contestazione, e la nuova dimensione di esistenza offerta”[7], concludendo che, osservando che il rapporto fra realtà fenomenica, delle apparenze, “ciò che, indicibile e irrappresentabile, si situa oltre di essa” è comunque una questione complessa e dibattuta fin dall’interno delle varie scuole orientali, e in ogni caso “non si risolve in un necessario sacrificio dell’estetico”.
Ciò che interessa cogliere è il fatto che la meditazione “dissolve la questione delle radici riconducendola a una «vacuità» produttiva di un senso nuovo della pratica della poesia e contribuisce a riproporre sotto una nuova luce l’«aura di una coincidenza»”.
Questo “senso nuovo” della poesia, informata come è dal Buddismo, è da prendere a modulo di una misurazione del reale, che al contempo scompagina e mette in fuga ogni illusione poetica, “la finzione della finzione”. E in effetti, così, “è verità”, come già diceva Gio Ferri.
Ritorniamo ora all’osservazione della Bello Minciacchi. Il nostro collegamento non si pone a caso, e rispecchia lo sviluppo di quel filo che unirebbe i tre termini della questione, così come posti dal titolo: epicità, comicità e “verismo”. Senza poterli esaurire del tutto, ci riserviamo di circoscriverli il più possibile, cominciando con l’anticipare che le premesse di partenza (la ricerca del “vero”) si ritroveranno circolarmente quale loro ideale conclusione, al termine dell’intera argomentazione.
Parliamo del “dolore”, perché è di questo che riferiva la critica, relativamente a una capacità dell’autrice di “vedere” e “intelligere”. In un Frisbee cosiddetto “della vecchiaia”, è scritto: “Il dolore è luce perché ci costringe a vedere ciò che facciamo di tutto per evitare: il dolore”[1].



[1] G. Niccolai, Frisbees ’88, in F. Cavallo e M. Lunetta (a cura di), Poesia italiana della contraddizione, Newton Compton, Roma 1989, pp. 183-184, ora in C. Bello Minciacchi, Scrivere senza anestesia. La chiarezza di Giulia Niccolai, in «il verri», n. 25, maggio 2004, p.139.




[1] Alla voce, in P. Corpu, Dizionario del Buddismo, Mondadori, Milano 2001.

[2] N. Celli, Buddismo, Electa, Milano 2006, p. 224.

[3] P. Corpu, op. cit., alla voce. p. 711

[4] Alla voce, in N. Abbagnano, G. Fornero, Dizionario di filosofia, Utet, Torino 1998.

[5] Alla voce, in N. Abbagnano, G. Fornero, op. cit.

[6] C. Bello Minciacchi, Scrivere senza anestesia. La chiarezza di Giulia Niccolai, in «il verri», n. 25, maggio 2004, p. 141.

[7] A. Tagliaferri, Delle radici come mito personale e come realtà, in G. Niccolai, La misura del respiro. Poesie scelte, Anterem, Verona 2002, p. 11.


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