I canti dell'offesa, di Fabio Franzin, recensiti da Alessio Franzin

CANTI DELL’OFFESA, una recensione di parte



  A metà fra il Dylan delle canzoni di protesta e il Matteo Salvatore delle canzoni di denuncia sociale, a metà fra la poetica rabbiosa e sferzante di Trilussa e le parole amare di Pennacchi, Fabio Franzin lancia con questi “Canti dell’offesa” il suo urlo primordiale. Versi potenti, scarni, diretti, contro la tirannia dei potenti e contro l’impoverimento materiale, ma soprattutto culturale, del nostro tempo. Come non riconoscersi nei suoi versi, versi che non sono diretti a nessuno in particolare, eppure versi che appartengono a tutti noi. Versi monolitici, che non conosciamo ma RICONOSCIAMO, come le montagne, come il mare. Se, dopo la pubblicazione delle opere di Primo Levi, nessuno ha più potuto dire di non essere mai stato, seppur per un istante, ad Aushwitz, leggendo questi “canti” nessuno potrà più dire di non essere mai stato un operaio, nessuno potrà più dire di non sapere cosa significhi essere precario, sia economicamente che spiritualmente. Questo ci insegna Franzin: che la precarietà, più che una condizione di vita, è un sentimento, uno stato d’animo. Lo stesso stato d’animo delle celeberrime foglie autunnali cantate da Ungaretti, precariamente appese agli spogli rami, in balia delle raffiche di vento potenzialmente fatali.

Un’opera matura quindi, forse una delle opere più compiute del poeta veneto che, conscio della sua maturità artistica ha giustamente optato per uno stile più asciutto, quasi telegrafico, eppure spietatamente efficace.



Alessio Franzin

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